La
crisi del prezzo del petrolio continua e ieri il greggio
toccava quota 27,67 dollari al barile. “Il petrolio rischia di mandare in panne
l’economia mondiale”, avverte con preoccupazione il quotidiano Avvenire, ed in effetti si
teme un ulteriore ribasso del greggio che potrebbe arrivare addirittura al di
sotto dei venti dollari al barile.
Il mercato non tiene e la crisi appare
determinata, secondo i più, dal gioco domanda-offerta: quest’ultima sarebbe
superiore alla domanda e, di conseguenza, avrebbe innescato una crisi di sovrapproduzione.
Ma questa risposta appare assolutamente riduttiva e poco convincente, in quanto
non tiene conto delle dinamiche geopolitiche.
Chi trarrà vantaggio, insomma, da quella
che potrebbe essere considerata a tutti gli effetti una guerra economica, finalizzata
a colpire tutti quei Paesi che hanno fondato la loro crescita sugli introiti
petroliferi? La risposta giunge repentina: proprio ieri la Russia ha annunciato una riduzione del 10% della spesa pubblica per
sopperire ad una crisi finanziaria, in parte determinata da una riduzione delle
esportazioni del greggio. Anche Venezuela,
Brasile e Nigeria sono in forte difficoltà: la politica di crescita interna
fondata sullo sfruttamento delle risorse petrolifere a discapito della
modernizzazione e della diversificazione delle risorse sta mostrando in maniera
drammatica tutti i suoi limiti. Secondo gli economisti, inoltre, la decisione
da parte dell’Arabia Saudita di favorire vendite così basse è soprattutto
dettata dalla volontà di distruggere la
nascente economia dell’Iran, che sta per ritornare sulla scena del business
internazionale a seguito della distensione tra il Paese asiatico e le potenze
occidentali a proposito della questione sul nucleare, che permetterà di porre
fine ad un embargo durato quasi quarant’anni. L’Iran, infatti, che aveva
sperato in una ripresa rapida attraverso la vendita del barile a 90-100
dollari, vede ora drammaticamente indebolita la propria posizione negoziale.
Il quotidiano inglese The Guardian ha sottolineato, inoltre,
come le crisi petrolifere sono state sempre utilizzate per accelerare processi
in atto o ottenere specifici risultati geopolitici, evidenziando che negli anni
Settanta il crollo del prezzo del greggio “ha rimodellato il panorama mondiale
e ha dato una nuova rilevanza al Medio Oriente”, successivamente “negli anni Ottanta
la fine dell’Unione Sovietica è stata accelerata dal collasso delle sue
esportazioni”, mentre “l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel
1990 nasceva in parte dalla volontà di conquistare nuovi territori in un
momento di ristrettezze finanziarie”. Infine, “in Algeria, altro Paese
profondamente dipendente dagli introiti del petrolio, lo stesso calo del prezzo
(fino a meno di dieci dollari al barile) ha innescato una vittoria elettorale
degli islamisti, un colpo di stato e poi la guerra civile”.
Appare evidente, dunque, che
l’abbassamento del prezzo del petrolio (che ha segnato un crollo del 70% nelle
ultime settimane) è frutto di una politica globale, voluta probabilmente dagli
stessi USA che oggi possono gridare all’autosufficienza produttiva, intesa a
spazzare via gli avversari attraverso la svendita dell’oro nero, con il tacito
assenso dell’Arabia Saudita che potrebbe, invece, diventare il produttore più
competitivo al mondo.
(19 gennaio 2016)