Un sole cocente batte sulla terra secca
ed arida, arsa a tal punto da sembrare sabbia. Un gruppo di uomini scarica da
un furgone una cassa di legno e la adagia delicatamente sul suolo sterile: è
una bara. Lentamente ed in silenzio, le sagome abbronzate imbracciano pale di
ferro e cominciano a scavare. Non un sussurro, non un respiro si sente
nell’aria asciutta, mentre le pale affondano un colpo dopo l’altro in quella
terra che profuma di morte. Poi, improvvisamente, un canto, una voce pietosa
leva nell’aria dolorose e potenti note che danno un ultimo saluto a quell’anima
sconosciuta. Poi più nulla. Le pale si affannano di nuovo a ricoprire la fossa.
Un cartellino nero con sopra un numero inciso viene infilzato sul tumulo e,
accanto, un fiore rosso.
Siamo nella periferia di Smirne,
(Izmir in turco), città turca che si
affaccia sul mar Egeo, nel cosiddetto “cimitero dei migranti”, in cui questa scena si
ripete più volte al giorno, sempre uguale. Non si tratta di un’area sacra, ma
di un pezzo di terra disabitato che l’imam Ahmet Altan ha deciso di destinare a
luogo di riposo di tutti quei migranti non identificati. “Non c’è nessun altro
a fare questo lavoro. Questi corpi sono stati affidati a noi e ad Allah” –
spiega con voce calma e rassegnata. Un compito non semplice il suo: ogni giorno
i corpi dei migranti annegati che non sono stati identificati o reclamati da
parenti ed amici vengono presi dall’obitorio da un gruppo di volontari e
condotti in questo cimitero di fortuna, in cui, dopo avere svolto un rito
funebre secondo la tradizione islamica, si tenta di dare loro degna sepoltura.
“Recentemente ho seppellito quattro bambini ed una donna con i suoi quattro
figli. Che peccato hanno commesso?”, continua l’imam, gli occhi asciutti ed il
viso duro. “Queste persone non hanno nessuno se non noi”. Grazie a lui ed ai
suoi collaboratori, negli ultimi sei mesi sono stati seppelliti più di cento
corpi in questa terra di confine tra Oriente ed Occidente, tutti morti per
annegamento nel tentativo di attraversare il Mar Egeo e raggiungere le coste
della Grecia. Ma il mare non è stato loro amico e puntualmente, ogni giorno,
restituisce alla terra, i corpi senza vita di questa gente a cui è stata rubata
anche l’ultima speranza. Condannati all’eterno anonimato, all’oblio più
terribile, di loro oggi non resta altro che un numero, una targa che tenta di
restituire loro almeno un briciolo di quell’identità perduta. “Si poteva
evitare tutto questo”, afferma l’imam, severo, e lancia un messaggio all’Europa
ed ai suoi governanti: “I leader europei dovrebbero venire qui e vedere, vedere
per capire, per comprendere il dolore. Io chiedo loro di fermare questo
massacro, di impedire la morte di altri bambini innocenti”.
Solo nei primi mesi del 2016 più di 360 migranti hanno trovato
la morte tentando di
attraversare il mare che separa le coste turche da quelle greche. Nel 2015 è
stato registrato un record senza precedenti di morti per annegamento nel
Mediterraneo. Ma la tragedia sembra acquisire ogni giorno dimensioni più grandi
mentre l’Europa continua a tergiversare senza approdare ad alcuna soluzione
definitiva ed efficace. Di questo passo, il funesto lavoro dell’imam di Smirne durerà
ancora a lungo.
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